Antichi mestieri

Calzolaio (Scarparu)

Quello del calzolaio era un mestiere che ebbe iniziò ai tempi dei romani, che indossavano i loro sandali di cuoio intrecciati fin sotto il ginocchio. Il suo lavoro consisteva nel realizzare o riparare le scarpe che si potevano acquistare molto di rado. Le scarpe nuove venivano utilizzate con parsimonia per paura che venissero consumate in fretta. Infatti, nei tempi passati, per limitarne al minimo l'usura la gente povera spesse volte camminava a piedi nudi. Nei mesi caldi i contadini, quando si recavano in campagna, non le indossavano e facevano buona parte del tragitto scalzi, con le scarpe a penzoloni sulle spalle legate per i lacci, indossandole solo in prossimità del centro abitato. Del resto se ne possedeva un solo paio resistenti e rinforzate nella suola e nei tacchi con i chiodini. Nelle famiglie, tra i figli che crescevano, con le scarpe avveniva una sorta di passaggio del testimone: il componente più grande le passava al più giovane.
Per questo la parte più consistente del lavoro erano le riparazioni. Il lavoro consisteva nel risuolare, rattoppare scarpe seduti davanti a un piccolo banco con vicino un cesto con gli attrezzi e vecchie suole di scarpe e ritagli di cuoio che non buttava mai anche se tagliandoli diventano minuzie.

Strumento essenziale del calzolaio, la cui divisa consisteva in un grembiule di pelle fissato al collo e dietro la schiena, era la lesina, robusta asticella d'acciaio appuntita, che serviva per forare il cuoio che doveva essere cucito con lo spago, impiegato per cucire la tomaia alla suola. Il filo sottile talvolta veniva raddoppiato e saldato con la pece. Per facilitare il passaggio nei fori si fissava a un capo dello spago della setola di porco e per tirare lo spago con forza si fasciava la mano con una striscia di pelle.

Alla cucitura, che era il modo più antico di unire suola e tomania, seguì nell'ottocento la chiodatura e quindi cambiarono gli strumenti di lavoro che divennero il martello per piantare e schiodare i chiodi. Questi potevano essere di varie misure e venivano ribattuti sul treppiede o piede di ferro, attrezzo a tre forme per suola, mezzasuola e tacco. Con il trincetto si tagliava e si rifiniva il cuoio e con la preda si arrotolava dopo averlo ammorbidito a mollo in un catino, dal quale si attingeva anche per bagnare la preda. Altri strumenti di lavoro erano la lima, il lucido, la vernice, la spazzola, le tenaglie e dei pezzetti di vetro per pareggiare l'orlo delle suole.

Il fabbro (forgiaru)

Il fabbro era un artigiano che godeva di molta considerazione nei diversi territori. Infatti, i paesi a vocazione agricola non potevano fare a meno di questo professionista lavoratore dei metalli. Con l'incudine, le pinze e le tenaglie, i martelli e le mazze, il fabbro modellava le barre di ferro incandescenti, che cedevano sotto i suoi colpi vigorosi, diventando zappe, vanghe, mannaie, accette, falci, picconi, roncole ferri di cavallo e brocche.

La materia prima del fabbro è costituita da barre di ferro di varie dimensioni. Le sue macchine ed i suoi attrezzi principali sono: la fucina, nella quale viene acceso il fuoco di carboni e tenuto vivo con un mantice (o un soffietto per le operazioni di minore entità), l'incudine, martelli di varie dimensioni, tenaglie, stagno e relativo martelletto per l'applicazione.

Il "forgiaro" era anche maniscalco ferrava cavalli e buoi. La procedura era abbastanza laboriosa. Dopo aver immobilizzato il cavallo, il maniscalco schiodava il ferro da sostituire; tranciava le punte dei chiodi uscenti estraendole da sotto con delle tenaglie. L'unghia veniva limata e rifinita con scalpello e coltello. Quindi, ne veniva valutata la grandezza e la forma. Poi si forgiava un ferro nuovo o, in alternativa, se era della misura giusta, se ne sceglieva uno fra quelli già preparati. Infine, veniva provato sotto l'unghia e si modificava affinché aderisse con precisione

Carbonaio (carbunaru)

Figura mitica quella del carbonaio che restava in montagna per mesi interi, portandosi dietro solo il mulo carico. I carbonai tagliavano gli alberi e con le roncole facevano la pulizia dei rametti.

Ogni carbonaro lavorava la sua macchia, la tagliava in pezzi di un metro e la accatastava. Successivamente veniva trasportata con i muli nello spiazzo, un punto in cui venivano scavate le buche nelle quali sistemare la legna e appiccare il fuoco. La cotta della legna, scavata nel terreno, aveva forma conica. Una volta appiccato il fuoco, veniva coperta con del terriccio e ogni tanto vi si praticavano dei buchi per far uscire il fumo ed evitare che la legna incenerisse completamente. Anche di notte, a turno, i carbonari, sorvegliavano la cava per evitare ogni pericolo. I carbonari dormivano nel capanno di legno costruito sullo spiazzo.

Stagnino (stagnaru)

Un mestiere che un tempo era molto praticato è quello dello stagnino "stagnaru". L'artigiano aveva due luoghi di esecuzione della sua professione; nel laboratorio e nelle strade. Il lavoro consisteva nel fare le saldature a stagno per "aggiustare" vari tipi di recipienti metallici: pentole, pentoloni, contenitori di lamiera per l'acqua da usare nelle abitazioni "quartare", ma soprattutto nel passare o ripassare uno strato di zinco all'interno delle pentole di rame. Quest'ultima operazione era necessaria per poter utilizzare le suppellettili di rame, perché esso rilascia una sostanza tossica a contatto con gli alimenti, lo strato di zinco creava un sicuro isolante. Gli arnesi che erano usati dallo stagnino erano: delle grosse forbici per tagliare le lamiere da utilizzare per rattoppare, un ferro per fondere lo stagno ed applicarlo nei posti dove era necessario, la forma di questo arnese era più o meno quella di un martello di ferro con la parte finale del manico composta di materiale termoisolante in considerazione del fatto che la parte metallica veniva immersa nella brace incandescente, delle barrette; di una lega di stagno e piombo (per le saldature dolci) di una lega di zinco rame e piombo (per le saldature forti), dei martelli di varia dimensione per sagomare i rattoppi di lamiera. Il metodo di saldatura sfruttava la diversa fusione dei metalli, il ferro aveva la stessa funzione dei moderni saldatori per i circuiti elettrici, ma a differenza di questo era riscaldato col fuoco quindi strumento indispensabile per gli stagnini era un fornello per il fuoco, che spesso era una normale latta di quelle usate per le riserve alimentari, la latta era riempita di carbone, al quale si dava fuoco fino a ridurlo in brace.

Bandiaturi

Prima dell'avvento dei mezzi di comunicazione di massa, quando molti non sapevano leggere, molti annunci, sia delle autorità che di privati per scopi commerciali, erano fatti dal banditore.

Questo caratteristico personaggio girava per le vie del paese, si fermava in punti particolari e dove c’era un capannello di gente, a voce alta scandendo le parole avvertiva tutti su quanto era stato preventivamente predisposto dall’Amministrazione o su fatti che dovevano verificarsi.
In questo modo tutte le famiglie erano informate.

Se l'oggetto del bando era di carattere ufficiale, e comunque di una certa importanza, egli usava il tamburello che, prima dell'annuncio, faceva rullare allo scopo di richiamare l'attenzione dei cittadini; in altre occasioni, comunicava la notizia accompagnandola con frasi "fiorite" o scherzose.

La lavandaia

Fino agli inizi degli anni '50 la lavandaia per lavare i panni doveva recarsi alla fiumara. La fiumara era un'importante risorsa per i contadini calabresi e anche per la lavandaia.

La fiumara era un'importante risorsa per i contadini e anche per la donna calabrese in veste di lavandaia.

La donna faceva prima il prelavaggio a mano col sapone fatto in casa (sapuni i casa) e, successivamente, i panni venivano sistemati secondo cerchi concentrici in un grande cesto nel quale si versava acqua bollente con la cenere che era il detersivo naturale dell'epoca, con proprietà disinfettante. Questo tipo di bucato prendeva il nome di "LESSIA".

Il sapone dell'epoca si preparava in casa utilizzando i resti dell'olio d'oliva lampante ad alta acidità (ogliu i murgaru) e dei grassi del maiale (a saimi) che si facevano bollire in acqua (nelle cardare) con l'agguinta di soda caustica (a potassa) in opportune percentuali, avveniva così il processo di saponificazione. Il miscuglio si lasciava raffredare e dopo la sua solidificazione veniva tagliato con una piccola serra manuale (u serrucciu a manu), in piccoli pezzi per poterlo usare facilmente.

Sembra che questo tipo di sapone veniva ultilizzato anche per l'igiene personale, lavare le mani, il corpo e i capelli in quanto molto efficace contro la forfora.

Nei decenni successivi il lavaggio avveniva nei paesi o vicino alle sorgenti, in appositi lavatoi comunali, fino all'avvento della lavatrice in tutte le case dei calabresi, e con l'utile elettrodomestico purtroppo anche l'uso dei detersivi che hanno causato la morte delle fiumare e non solo.

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