L’uomo del Sud di Saverio Strati (compie 90 anni ad
agosto).
Combattuto fra il desiderio del rientro e il
rifiuto di una società immobile
“Come molti meridionali, Saverio Strati sembra portare sulla propria
persona la vita dei padri. Il passato, soprattutto, il dolore del
passato, la tradizione della sua terra, i secoli di miseria e di
silenzio, la pazienza contadina e artigiana, il pudore dei sentimenti, e
persino l’antica lentezza con cui il tempo trascorre nei vecchi paesi,
sembra portarseli addosso, come una consanguinea presenza, una
compagnia.(…) Come Alvaro, Strati è un uomo silenzioso, semplice,
schietto ma riservato; più di lui mite; come lui accanito nella fedeltà
e nel lavoro.
In
entrambi , lo stupore di chi ha affrontato , venendo di lontano, il mare
aperto del mondo moderno, risuona sulla stessa lunghezza d’onda della
fraternità a una tradizione in cui essi sanno discernere tanto il valore
quanto l’ingiustizia che reca in sé, tanto l’eroica dignità quanto
l’odiosa sopraffazione , e che , prima ancora che del loro mondo
culturale , fa parte del loro essere.”
Così l’indimenticabile Geno Pampaloni presentava lo scrittore ,nato a
Sant’Agata del Bianco nel 1924,introducendo Tibi e Tascia , il miglior
libro di Strati (pubblicato da Vittorini per Mondadori su segnalazione
di Debenedetti), dove troviamo, oltre che nella raccolta dei racconti
d’esordio de La Marchesina,quasi tutti i temi che poi svilupperà nel
corso della sua prolifica produzione.
A Pasquale Falco che gli chiedeva nel giugno del 1984 “ se dovessero
imporle di distruggere tutti i suoi libri tranne uno, quale
conserverebbe per la civiltà prossima ?” egli rispondeva con disincanto:
“Io penso che la serie dei miei racconti e dei miei romanzi non sono
altro che capitoli di un lungo romanzo …Se poi lei mi domanda qual è il
libro che ritengo più poetico e che mi piacerebbe salvare, non ho nessun
dubbio: Tibi e Tascia .”
Lo si legge con emozione perché nella storia dei due ragazzi,raccontata
dall’interno e così ricca di stupore, di dolce mestizia e di velato e
candido amore, c’è la storia della nostra infanzia e la felicità della
sua innocenza, delle nostre scarpe rotte, dei piedi nudi dei più
poveri,della fatica delle nostre madri e delle donne di Calabria
abituate a portare ieraticamente pesi come antiche dee e ninfe greche,
del riserbo virile e delle mani callose dei nostri padri legati alla
terra di un amore carnale. Strati ci racconta l’infanzia come memoria
del dolore e riesce a esprimere con asciutta tenerezza un amore
grandissimo senza nostalgia.
Come già in Alvaro ritorna in Strati, prepotente, poetica e struggente,
la presenza della madre: “ Cominciò a spiegare alla madre il significato
di quelle figure. Ma ad un tratto s’interruppe e disse:” Se io diventerò
anche, che dirti?,se io diventerò anche papa , non mi dimenticherò mai
di te, mai, mamma. Anche se diventerò giudice, o l’uomo più importante
del mondo, io ti vorrò sempre bene, ti vorrò sempre in casa mia, ma’. Tu
credi che io ti dimentichi? e guardò la madre con gli occhi vivissimi e
pieni di amore.”
Del
romanzo parla anche Walter Pedullà nel suo Il Novecento segreto di
Giacomo Debenedetti, il professore di origine ebrea che tenne la
cattedra di letteratura italiana a Messina tra non pochi ostracismi per
la sua popolarità e autorevolezza tra gli studenti nei primissimi anni
cinquanta : “ Eravamo già a Roma quando Strati pubblicò Tibi e Tascia.
Debenedetti si disse contento. Saverio aveva scritto un bel romanzo,
Nello stesso tempo Tibi e Tascia lo aveva deluso. Il finale è terribile
e tuttavia, come dire?, amorale. Il protagonista abbandona tutti, un
giudice lo manterrà agli studi più alti, Tibi – in altri termini Saverio
-pubblicherà romanzi . L’alter ego di Saverio lascia il paese, la
bambina di cui è innamorato, la madre che si sfianca in tremendi lavori
e gli amici inseparabili, per poter scrivere un bel libro e ottenere il
successo artistico. Tranne che per questo, il romanzo è bellissimo,
specialmente dove Saverio trasforma in fiaba , genere infantile e
profetico,la realtà come nella scena in cui Tibi osserva incantato
l’arrivo della prima auto nel suo paese. I bambini di Saverio fanno
capire meglio dei grandi che cos’è il Sud, lo stupore della sua realtà e
la concretezza dei suoi sogni.”
Il finale piacque invece al compianto Pasquino Crupi : “ Nelle verdi e
sazie campagne del Mezzogiorno gli uomini non ebbero mai età : nacquero
adulti. Non esistono fanciulli , ossia esseri umani lontani dalla fatica
. Chi ha avuto sorte di nascere tra il sudiciume di una vecchia coperta
si affaccia sulla via col fratellino in braccio ( Tascia) o va a
raccogliere olive ( Tibi), mentre preme alle spalle la necessità di
salire in montagna a guardare le pecore : in attesa ci si rende utili,
magari suonando le campane della chiesa. E si lotta per un mondo
migliore , trasformandolo con l’immaginazione . Come il piccolo Tibi,
che , con l’aiuto di un giudice, rompe la prigione delle proprie
montagne e scende in paese : simbolo di una generazione che si affranca
dalla servitù della gleba.”
Strati nelle sue prime opere narrative per comunicare ed esprimere
l’anima del popolo usa la lingua del popolo minuto, il basso parlato
come lui lo chiama: una lingua povera, sempre basata sugli stessi pochi
verbi, su esclamazioni che indicano mancanza di parole . E specifica : “
Da Noi lazzaroni in poi si avverte una maggiore complessità, una
maggiore padronanza nell’uso della lingua. Il popolo parla in un modo se
è rimasto sempre al Sud, isolato, tagliato fuori dalla vita nazionale,
parla in un altro modo, più ricco ed evoluto quando si muove e fa nuove
esperienze di vita e di cultura.”
Lo
scrittore riesce a fare un impasto , una lingua presa dal parlato sulle
orme di Verga e di Francesco De Sanctis. Un linguaggio infarcito di
parole dialettali di origine greca , latina, spagnola , francese e anche
tedesca. Sedimenti lasciati dalla storia delle dominazioni straniere .
Strati richiama la tesi del Rohlfs che sosteneva che il dialetto
calabrese è di origine classica, soprattutto quello della costa jonica .
“ Ed allora perché io non dovrei usare delle voci che ha già usato Omero
e che ancora sono usate dalla gente ? La vera matrice del mio narrare
sta nei raccontatori di favole che da ragazzo ascoltavo senza mai
saziarmene. Soprattutto le donne sapevano raccontare. Passavano
immediatamente da un fatto all’altro, da un personaggio all’altro e
allargavano il racconto inserendoci una serie di minuti racconti. L’aver
assorbito questa maniera di narrare è stato importante per me. Forse
dentro di me è rimasta la formazione culturale parlata(…) Sopra ogni
libro mi ha da sempre interessato l’Odissea di Omero. In quel libro c’è
la cultura viva di noi mediterranei, di noi meridionali. Goethe
osservava nel suo Viaggio in Italia che si capisce Omero solo quando si
arriva nel Sud d’Italia . Noi Mediterranei siamo più vicini ad Omero che
agli scrittori moderni tedeschi o inglesi . “
Non si deve dimenticare che Saverio Strati, dopo le elementari ,riprende
gli studi a ventun anni. Grazie all’aiuto di uno zio d’America, che
mandò il danaro sufficiente, studiò a Catanzaro da privatista,
conseguendo al Galluppi a 25 anni la maturità classica. Lo ricorda con
grande orgoglio : “ Nessuno deve dimenticare che fino a ventun anni sono
stato semianalfabeta; nessuno deve dimenticare che sapevo lavorare bene
da mastro muratore , che sapevo lavorare bene anche da contadino . Tutti
questi fatti hanno formato e temprato il mio animo, mi hanno fatto
imparare a narrare cose che sembrano mie ma che invece sono di tutti i
lavoratori del Sud e direi del mondo . Insomma il mio vero maestro è
stato il lavoro duro , a giorni massacrante . Io suggerirei a tutti gli
scrittori di lavorare un poco con le braccia. Capirebbero tante cose di
più , sarebbero meno nevrotici. D’altro canto non era questa la lezione
di Tolstoj? “
Dalle Memorie del mondo sommerso alvariano si passa alle Memorie del
sottosuolo o di una casa di morti di Dostoevskij. Gli scrittori russi
hanno dato molto a Strati . Come loro anch’egli si annulla nei
personaggi che narra. Un concetto che ribadisce al fraterno compagno di
studi universitari , l’indimenticabile Carmelo Filocamo, in una lettera
del 25 marzo 1954.
Ero andato più di vent’anni fa a casa del preside perché voleva farmi
vedere da vicino il carteggio con l’amico di una vita. Si tolse gli
occhiali e con la sua voce roca e baritonale me la lesse con tante
altre, interrompendosi più volte per la forte emozione: “Mio caro
Carmelo non è passato un mese , né un giorno stavolta per rispondere
alla tua lettera. Poche ore fa l’ho ricevuta ed ora ti scrivo. So che mi
conoscete abbastanza bene , ma non del tutto. Ti assicuro , non del
tutto. Né sono soltanto quel Saverio della “ Marchesina” e della “
Rigalia” e della “ Quercia”. Ma c’è dell’altro , assai più bello ed
interessante che nessuno di voi ha letto e chissà quando leggerete. E
dell’altro che scrivo di giorno in giorno, con la stessa serenità di
prima, ma con altra praticità . Carmelo , vent’anni passati con la zappa
nelle mani e la cazzuola e la falce , e le sofferenze , non si
cancellano così. E non sarà Firenze a cancellarle né Roma né Messina. La
nostra Calabria, i nostri contadini i nostri lavoratori, tutti gli
uomini , di ogni grado , di ogni condizione sono dentro di me . E parlo
con essi, per delle ore , per delle settimane e me li porto dentro per
anni e poi escono , con un parto doloroso. Gli ambienti “ intellettuali”
puzzano al mio naso . Puzzano ! E ne esco inorridito, se ci entro. E
ogni giorno che passa mi accorgo che quelli che parlano di contadini ed
operai , per aver letto libri, per averne sentito parlare, dicono delle
fesserie. Per conoscere i contadini bisogna essere stati contadini e non
costruirli, come si vuole. Bisogna avere l’animo dei contadini . Bisogna
avere quella loro religione, quella loro logica, quel loro senso pratico
. Ed io ce l’ho . E non perché l’abbia letto su Gramsci, tanto per dire
, o su Lenin o su Tostoi, ma perché io sono quello che fa la gara nella
“ Rigalia”. E di queste cose , caro Carmelo , potrei parlarti. E quanti
massari e massaie e pastori e pastore , e muratori e calzolai e ragazzi
e ragazze scalzi e nudi sono dentro di me . E non li vado scavando con
la zappetta , ma vengono essi e si offrono e mi dicono : “ Ed ora tocca
a me . A me.”
A momenti temo che finisca prima che possa dire tutto. Ma se vivrò
ancora vent’anni , vedrai che saprà fare lo zappatore della “ Rigalia” .
E non mi fa paura il lavoro , chè i miei muscoli sono ben forti .
Ho scritto di getto. Non so cosa abbia detto . Tu mi scuserai .”
Una lettera scritta da Firenze dove Strati era andato nel 1954 per
preparare la tesi di laurea sulle riviste del primo Novecento e dove
inizia a pubblicare i primi racconti sul “Nuovo Corriere “ di Bilenchi “
, su “ Il Ponte” e “ Nuovi Argomenti “ . Non si laureò mai, ma scrisse
tantissimo.
Quegli
anni fiorentini ritornano in un bellissimo racconto , I grandi ricordi,
pubblicato in una raccolta del 1994 ( il suo silenzio dura da vent’anni)
per l’editore Manni , Il vecchio e l’orologio. Ritorna la pensione di
Anna Maria Ichino che aveva ospitato anche Umberto Saba e Carlo Levi e
dove Strati conosce una ragazza svizzera che studiava in Italia e che
sposerà nel 1958 andando a vivere in Svizzera fino al 1964. Rientrato in
Italia andrà a vivere a Scandicci dove ancora soggiorna alla vigilia dei
suoi novant’anni che compirà il 16 agosto di quest’anno. Pagine intense
,ricche di poesia , di sentimenti mediterranei rappresi nelle storie che
si dipanano con il consueto asciutto e scarno realismo narrativo (
lirismo laico per Geno Pampaloni) e dove la presenza della morte avanza
spudorata e passa come un’ombra e lo fa tremare per la paura: “ L’altro
giorno , mentre camminavo in via Maggio , mi capitò di scorgere la mia
vecchia padrona di casa che ritenevo già morta da un pezzo .Camminava a
fatica, un piede dietro l’altro con angosciante lentezza. A tratti si
fermava per prendere fiato e poggiava la mano al muro del palazzo che le
stava accanto .Passai dall’altro marciapiede , per evitarla e insieme
per osservarla. Ricordai in un baleno i giorni trascorsi nella sua casa
antica e fredda, il primo anno che arrivai a Firenze . Ricordai i suoi
discorsi e le confidenze che la signorina mi faceva , quando si rese
conto che non ero figlio di briganti .
-Laggiù , laggiù , ci sono ancora i briganti ? – mi aveva chiesto una
sera.
(…)Era un tipo orgogliosa della sua città e della sua discendenza. (…)
Era bisognosa di farsi ascoltare, di avere qualcuno in casa per non
sentirsi sola , altrimenti l’angoscia le serrava il cuore. L’idea di
morire senza che i vicini se ne accorgessero non le dava pace e la
induceva a trascorrere gran parte della notte , specie d’inverno , a
luce accesa e a occhi spalancati. (…) Di colpo decido di andarla a
trovare. Mi ci metto davanti e le dico : Buongiorno , signorina …Mi
riconosce?
Si ferma , poggia la mano al muro . Mi fissa con i suoi occhi chiari e
spenti e mi domanda impaurita: -Cosa vuole da me? Mi lasci in pace …Sono
una povera vecchia che non ha soldi nel portamonete. Era molto agitata.
Tremava. Capii che aveva paura di essere derubata e senza aggiungere
altro andai via con uno sconforto grande quanto il cielo dentro di me.”
Ho
incontrato una sola volta Saverio Strati. Nel maggio del 1986, quando a
Bovalino, su invito di Totò Delfino , venne a ricordare Corrado Alvaro ,
nel trentennale della morte , facendo una indimenticabile lettura di
Gente in Aspromonte :”Corrado Alvaro -puntualizzò lo scrittore- scrisse
Gente in Aspromonte mentr’era inviato speciale in Germania . Vivere in
Germania avrà avuto i suoi effetti, in parte positivi e in parte anche
negativi. Stando in Germania , la nostalgia della sua terra faceva da
richiamo ; lo stimolò certamente a raccontare sul filo della memoria .
Insomma la memoria di Alvaro si accese e tutto quanto aveva visto e
assorbito e vissuto da bambino nel suo paese affiorò con trepidante
emozione e si fissò sulla carta bianca, come la neve sulla terra durante
una vera e intensa nevicata . Il ricordo di mondo visto tanto tempo
avanti si scioglieva dentro la fantasia di Alvaro e diventava poesia. Il
lato negativo potrebbe essere che egli, da uomo portato alla riflessione
, sia stato influenzato , anzi soggiogato dalla grande cultura e
letteratura tedesca . Mentre viveva in Germania ebbe contatti personali
con Benjamin, con Brecht, e lesse le opere dei grandi scrittori di
lingua tedesca , da Kafka a Roberto Walsen, da Doblin a Joseph Roth, dai
fratelli Mann e Hermann Hesse . Questi autori , più che la tradizione
italiana e meridionale ( Verga , Capuana , De Roberto , lo stesso
Pirandello e Padula) ebbero , a mio avviso , un grande influsso
nell’opera successiva a Gente in Aspromonte .Se infatti leggiamo Vent’anni
soprattutto nelle prime cento pagine abbiamo la sensazione di trovarci
in mano il romanzo di uno scrittore mitteleuropeo e più precisamente di
Joseph Roth.Io credo che Alvaro sia grande e nuovo narratore quando
riesce a immergersi nel suo mondo d’origine: e ritengo che di questo
fatto egli stesso avesse per istinto coscienza.”
Sulle orme dello scrittore di San Luca e quasi a replica di Gente in
Aspromonte, Strati scrive Gente in viaggio (raccolta di racconti) ma si
rende ben presto conto che non può restare prigioniero del suo mondo
d’origine, sradicato come in Noi lazzaroni. I meridionali immigrati, pur
avendo risolto il problema economico ,devono ora integrarsi: “Il cielo
era lucido e il paesaggio bello . Mi soffermai sul vano della porta e
ammirai il mondo circostante e feci dei confronti col Sud. Pensai a mia
madre, pensai ai miei. Dovevo scrivere a mia madre . Le scrissi ,
infatti , dopo pochi giorni. Dovetti fare lo scrivano anche per il
bracciante del sogno e per altri due. Leggevo le lettere che ricevevano
da casa e loro mi dicevano cosa dovevo raccontare di loro, della fatica,
dei soldi che spedivano.. Sapevo dei figli , della moglie, dei
compaesani, di tutto il paese. ( …) Andai a buttarmi nella cuccetta con
un peso indefinibile sul cuore .Tristezza, rabbia , voglia di comunicare
ai miei le mie prime impressioni e dire che qualcosa di nuovo era
avvenuto , che se non altro il lavoro non era da bestie da soma come a
Montalto .”
Per
Strati il riscatto del Sud deve arrivare dallo stesso Sud. E’ questo il
motivo dominante di Noi lazzaroni con un finale tragico che a tanti
critici non piacque ma che per lo scrittore è l’emblema del destino di
un uomo del Sud : “ Di un uomo – sottolinea Strati – che s’è formato
moralmente in un mondo sano e che suo malgrado fa del male senza
saperlo. Aveva avuto un figlio da una donna che aveva posseduta solo per
bisogno sessuale. Questo suo figlio, che mai incontra, emigra e fa il
racket delle braccia a Torino . Da un uomo onesto nasce un delinquente
che finisce morto ammazzato. Tutto sommato è la punizione- sconfitta del
nostro operaio intellettuale. Bè non mi piacerebbe chiudere la mia vita
con una sconfitta di questo tipo. Nemmeno un destino come quello del
Diavolaro mi piacerebbe avere. Anche Il Diavolaro è uno sconfitto. Forse
mi sento più vicino a Leo de Il Selvaggio di Santa Venere. Uomo operoso
che si preoccupa di creare lavoro e strutture moderne in modo che i
giovani non siano più costretti a emigrare .”
Da scrittore impegnato con questi ultimi romanzi sfocia in una sorta di
realismo sociale, in un nuovo meridionalismo.
Il progetto di una moderna azienda agricola portata avanti da Leo Arcadi
nel Selvaggio di Santa Venere non sarà realizzato. Il figlio decide di
abbandonare il Sud: “ Al diavolo il Sud e tutti quelli del Sud che
aspettano anni dopo anni la manna , invece di rivoltarsi , invece di
appiccare fuoco ai politicanti ottusi e disastrosi più del terremoto (…)
e capivo che il male sta in noi stessi e piantai nel più bello mio padre
e partii . Girai mezza Italia , fui in Francia , in Svizzera, in
Germania , e ora mi sono sistemato in Emilia dove lavoro da carpentiere
e faccio attività politica e me ne strafotto di non aver studiato . “
Combattuto tra il desiderio di ritornare al Sud con il senso di colpa
di aver tradito la propria terra e il rifiuto di una società immobile
come quella meridionale prende corpo l’uomo nuovo di Strati. Tre
generazioni a confronto con la parte dell’io narrante affidata a Dominic
che si confronta ora con il nonno ora con il padre in una distinzione
che non appare mai netta ma che sembrano costituire “ una sorta di
trinità laica della famiglia meridionale “: “ Lui aveva succhiato il
sapere che sapeva da suo padre (…) e io succhiavo il sapere che era
sapere di suo padre e suo insieme . Sotto sotto , a rifletterci bene ,
io non ero uno ma tre : nonno, padre e figlio , ero . “
Come
si vede tutti i personaggi di Strati sono dei personaggi-problemi e chi
non è abituato al suo linguaggio, distante anni luce dalle classi colte,
si sente intimorito e quasi insultato . Ma è un linguaggio che racchiude
la storia di una vita, di una ricerca poetica tutta intrisa di una
robusta musicalità morale e della dignità delle mani come il muratore
della Teda, in quella lunga invernata a Terrarossa, nel cuore del
vecchio Aspromonte. Anni ed anni di lavoro incessante “ alla ricerca-
scrisse Pampaloni- della lingua della realtà , sulla frontiera
inquietante tra il mondo moderno, ingiusto ma “ necessario “ e il
vecchio mondo del sud, remoto e struggente nella sua sfortunata
saggezza.”
Le pagine di uno dei suoi ultimi racconti Insonnia ne danno la conferma
e ci fanno sentire Strati sempre accanto. Nonostante i suoi novant’anni
continua con la sua fervida fantasia a tornare tra noi, nella sua
Calabria alla quale è rimasto fedele per una vita , senza nostalgia: “
Ricordo che quando si era ragazzi , di tutti noi compagni di giochi e di
scuola , solo Vincenzo veniva giù al mare, benché fosse più povero di
tutti noi . ma sua madre era ammalata abbastanza gravemente di
reumatismi e doveva farsi sotterrare , secondo i consigli del medico ,
nella sabbia infuocata. Doveva fare almeno un mese di cura ; ma ne
faceva dieci-dodici giorni, con due bagni di sabbia il dì invece di uno
. Si portava dietro anche il figliolo, perché non aveva cuore di
lasciarlo al paese mentre lei stava sola a mare, come se andasse
divertirsi. Si sistemava in una capannuccia di frasche , insieme ad
altri campagnoli malati degli stessi disturbi e lì dormiva e li si
seppelliva nella sabbia e restava a testa scoperta sotto i raggi cocenti
del sole. Si scioglieva il sudore e alla fine si sentiva bene.(…)
Vincenzo quando ritornava su in collina pareva un altro : come se
rientrasse da Roma e da Parigi . Mi raccontava per un anno le cose belle
che aveva viste e imparate e che gli avevano suscitato meraviglia e
gioia. ( …) Sua madre qualche volta comprava una libra di sarde che
friggeva ed erano così buone, uhm! (…)Pensavo a questi racconti di
Vincenzo, mentre sono steso e teso sul letto e la notte è silenziosa .
Ho l’impressione che gli anni non siano trascorsi , tanto è viva la voce
del vecchio compagno di giochi dentro di me; è chiaro ogni segno del suo
viso di fanciullo. Ora non so nulla di lui uomo , proprio nulla .
Nemmeno se è morto , e può darsi che sia anche morto . Non so se è
sposato con figli e coltiva i campi come suo padre , o vive da emigrato
all’estero come tantissimi altri . Non conosco niente della sua vita di
adulto ; ma lui ragazzo è dentro di me e ride a crepapelle . Dentro di
me , mentre non mi riesce di dormire e seguo con struggente invidia il
lento e normale respirare degli altri che dormono tranquilli , senza
affanni , senza fantasmi nella mente . (…) Se fossi solo mi alzerei e
camminerei per le strade deserte , o leggerei. Accenderei la luce e
leggerei . Non posso muovermi e questo buio mi opprime.(…) Soffro le
pene di Tantalo, dato che il bisogno di muovermi è più forte di me . Ma
non posso…non posso !…”
E’ l’eterna condizione dell’uomo a tutte le latitudini che ritorna, con
il rifugio nei ricordi vivi dell’infanzia che hanno in sé la forza della
vita e fanno da contrappunto all’inesorabile scorrere degli anni che
appesantisce il corpo e stordisce la mente. Sarebbe bello , invece,
uscire di notte , aspettando l’alba, e camminare per le strade deserte ,
ascoltando sulla spiaggia il respiro profondo dello Jonio, e lasciandosi
affondare nel tempo .
Con la sua scrittura , che si nutre dei succhi dell’oralità di una terra
dura e dai colori irripetibili, Saverio Strati segna con forza il
passaggio da una insondabile ricchezza di sentimenti quando si era
poveri ad una povera condizione interiore in una società sempre più
affascinata dal consumismo e che ti fa incontrare solo pochi volti
autentici e tante maschere di anime morte.
Articolo di Gianni Carteri pubblicato il 10 febbraio
2014 su calabriaonweb.it |
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