L'impossibile repubblica di CauloniaIl 23 giugno 1947, presso il tribunale di Locri, in provincia di Reggio Calabria, si aprì il più grande processo politico del dopoguerra. Per contenere tutti i 365 imputati il magistrato fu costretto a spostare le udienze in un ex pastificio appositamente trasformato in corte di giustizia. Ma presto venne stabilito che il reato di cui i 365 erano accusati, la sollevazione armata del piccolo centro di Caulonia (all'epoca 15mila abitanti), ricadeva nei crimini prescritti dall'amnistia di Togliatti dell'anno precedente. Solo tre persone vennero condannate: Ilario Bava e Giuseppe Menno, responsabili dell'uccisione di un prete, e Pasquale Cavallaro, sindaco comunista del paese e - secondo la magistratura - mandante diretto dell'omicidio. Si concludeva così una piccola vicenda
locale che per qualche giorno, appena due anni prima, aveva
attirato l'attenzione di tutta Europa, quando si raccontava che
persino Stalin avesse dichiarato: «Ci vorrebbe un Cavallaro in
ogni città». Ma chi era questo eroe di un giorno, destinato a
pagare la propria bravata con otto anni di carcere? La storia
della Repubblica di Caulonia ha i tratti, eccezionali e tipici
al tempo stesso, del suo ispiratore. Compagno di scuola di
Corrado Alvaro, maestro elementare di origine contadina,
volontario decorato alla Prima guerra mondiale e poi, dopo una
lite con un ufficiale, disertore, infine organizzatore di
un'associazione a difesa dei braccianti in cui aveva cercato di
coinvolgere anche alcuni membri della 'ndrangheta locale,
Pasquale Cavallaro aveva 31 anni e una grande esperienza al
momento della marcia su Roma. Prevedibilmente, l'ascesa del
fascismo lo aveva subito visto tra i più fieri oppositori:
picchiato dagli squadristi, privato del lavoro e inviato al
confino dal 1933 al 1937, quando nel 1942 ricominciò l'attività
segreta di proselitismo per il Partito comunista, Cavallaro era
già un leader riconosciuto. Allo stesso tempo, Cavallaro organizza di
nascosto per il Pci il traffico delle armi alleate verso i
partigiani del Nord, intercettando una parte delle spedizioni in
vista di un'insurrezione filosovietica che in quel momento
nessuno si sentiva di escludere del tutto. All'inchiesta del
comune, il 75% dei terreni demaniali risulta usurpato dalle
grandi famiglie del luogo, e la tensione cresce giorno dopo
giorno tra le provocazioni degli ex fascisti (spalleggiati
apertamente dai carabinieri) e le ansie di riscossa dei
contadini. Ma Togliatti, nell'unico incontro con Cavallaro, è
stato irremovibile: «Per ora niente». La via italiana al
socialismo non deve passare per le armi. Almeno per il momento.
E Cavallaro aspetta.
Da questo momento sembra di leggere una
versione aggiornata di Libertà: la novella che Giovanni Verga
volle dedicare all'insurrezione scatenata a Bronte dalla notizia
che in Sicilia era sbarcato Garibaldi e repressa nel sangue dal
suo emissario Nino Bixio. Tempestivamente viene aperto un campo
di concentramento per i nemici di classe, mentre si forma un
Tribunale del popolo, che comincia subito a lavorare a pieno
ritmo. Gli ex fascisti, che qui s'identificano quasi tutti con i
latifondisti, vengono chiamati a uno a uno e sottoposti al
giudizio popolare e poi a una serie di punizioni esemplari:
baciare la scarpa di un contadino, camminare a piedi nudi,
restare nudi nel freddo, intonare a comando l'allora celebre
canzone Mamma son tanto felice, in qualche caso estremo
bastonate e scudisciate. La sera i carabinieri liberano Ercole,
accolto tra i festeggiamenti generali. L'insurrezione rimane
ancora nei limiti tollerabili, finché la mattina dopo avviene
l'imprevisto: nel clima di generale resa dei conti, mentre sta
compiendo una perquisizione, Ilario Bava s'imbatte nel parroco
Gennaro Amato, che da tempo ha una relazione clandestina con sua
moglie, e nel corso di un alterco lo uccide con una fucilata
all'inguine carica di allusioni. L'unico colpevole è Cavallaro. Il
trionfalistico telegramma da lui inviato a Togliatti la mattina
del 9 è la prova migliore che il sindaco di Caulonia non ha
ancora capito cosa sta succedendo attorno a lui: «Insurrezione,
come non mai in Calabria, con centro Caulonia, dopo superba
soddisfazione ottenuta, est fermata. Solo un morto. Fascisti et
reazionari, tutti intendano il basta». Per prudenza il Pci lo
convince a lasciare il posto di sindaco e a nascondersi per
qualche tempo a Napoli ma di fatto lo consegna ai carabinieri. E
poche ore dopo l'arresto di Cavallaro, il 13 aprile, scatta un
capillare rastrellamento pianificato da giorni con l'impiego di
oltre 600 carabinieri: un'operazione che si conclude con 387
fermi, numerosi feriti tra i contadini e il sequestro di una
parte dell'arsenale clandestino. Gli storici non sarebbero stati da meno
nella loro condanna. Se le repubbliche partigiane del Nord -
comprese quelle fondate in Piemonte nell'estate del 1946 contro
l'amnistia di Togliatti - andavano spiegate con categorie
politiche, perché evidenziavano la presenza di due linee opposte
nella Resistenza (riformista o rivoluzionaria), per Caulonia gli
strumenti adatti erano quelli delle ricerche folkloriche. Che
cos'era stata infatti l'insurrezione di marzo se non una
riedizione della "festa popolare"? Né, da allora, è mancato chi
ha evocato la memoria ancestrale dei moti antiborbonici di
Caulonia del 1848 (su «Il Ponte» di Calamandrei, nel 1950) o
chi, sulla base di una facile parentela geografica, non ha
resistito alla tentazione di attribuire agli insorti il progetto
di applicare a Caulonia la lezione della Città del Sole di
Campanella. Lo stesso eterno irrazionalismo politico del
comportamento delle masse meridionali che nel 1970 sarebbe
evocato per spiegare l'insurrezione neofascista di Reggio
Calabria, provocata dalla scelta di Catanzaro come capoluogo
della regione. Dalla nostra distanza storica possiamo vedere finalmente le cose in maniera diversa. Per comprendere quel misto di universalismo e localismo che ha caratterizzato i fatti di Caulonia non è escluso che convenga rileggere un bell'intervento alla Costituente del comunista calabrese Fausto Gullo, ministro dell'Agricoltura dall'aprile del 1944 e responsabile di alcune delle leggi più avanzate contro il latifondo: una difesa appassionata dello stato unitario contro le ricorrenti tentazioni separatiste (ma anche regionaliste) che ci aiuta, forse, a orientarci meglio tra le contraddizioni e le identità multiple di Cavallaro (il rivoluzionario, il profeta, la testa calda, lo 'ndrangetista, il patriota decorato, il disertore, il dirigente di partito...), proprio perché cerca d'interpretare la lunga storia delle insurrezioni meridionali con categorie finalmente politiche. «È contro la Storia, contro la verità colui che osa affermare che il Mezzogiorno d'Italia, entrando a far parte della famiglia unitaria, ha perduto tutto e nulla guadagnato. Nelle rivolte contadinesche che seguirono all'unificazione d'Italia qual è sempre stato il segno verso cui si appuntarono tutte le ire, verso cui si volsero tutti gli odi delle masse? I poteri locali: quei poteri che, essi soli, mozzavano il respito alle popolazioni. [...] Uno solo è il pericolo: che le classi possidenti meridionali possano tornare, attraverso una larga autonomia regionale, a dominare la nostra vita». Oltretutto, parole sul valore dell'unità nazionale che oggi, a più di cinquant'anni di distanza, non hanno perso nulla della loro attualità. Articolo di di Gabriele Pedullà pubblicato su Il Sole 24 ore il 22 febbraio 2011
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