Persefone, la dea condannata all'esilio

La "Persefone di Locri", o, come è impropriamente detta, "di Taranto", è tornata, in questi ultimi mesi, di attualità grazie alla recente pubblicazione del saggio di Fortunato Aloi, La Persefone di Locri, un mancato. ritorno (Diaco Editore). Ma anche a un vivace gruppo di esperti e appassionati, attivo su Facebook, che in poco tempo ha registrato un discreto e qualificato numero di adesioni. Entrambe le iniziative hanno per obiettivo la restituzione della statua al Museo archeologico nazionale di Locri e che tutt'oggi è custodita in bella evidenza a Berlino.

Contorta e complessa la storia di questa imponente opera d'arte classica (V sec. a.C.) di marmo pario che – per usare le parole di Corrado Alvaro in Mastrangelina – incute «terrore e reverenza». Una storia ricostruita a ritroso, come un film che va visto tutto in flashback per venire a capo della trama. E il punto di partenza è quel fatidico 16 dicembre 1915, quando il reperto archeologico fu esposto all'ammirazione del pubblico in una sala del Friedrich Museum di Berlino, con l'improbabile nomea di Persefone Gaia proveniente dagli scavi di. Taranto. Tesi che più tardi sarà suffragata dall'autorevole archeologa Paola Zancani Montuoro e che ancora rappresenta uno stigma sull'intera vicenda.  

«Balla più grossa – scrisse Sharo Gambino in un articolo – non poteva essere sparata, perché a Taranto quando mai ci fu un tempio e un culto alla regina d'Averno? La faccenda puzzava, eccome!». Ad accorgersi per primo che le cose non andavano nel verso che si voleva far credere fu l'archeologo Vincenzo Casagrande il quale, in diversi scritti, confutò la primitiva tesi tarantina parlando anzi di "trafugamento" da un predio esistente nell'area della Locri Epizefirii, ed esortando l'intellighenzia calabrese a operarsi per ottenerne la restituzione. Gli fece eco il deputato catanzarese, e giolittiano, Spartaco Fazzari, che nel 1922 pose un'interpellanza al governo in cui chiedeva che la statua fosse inserita sul conto della Germania addirittura tra le "riparazioni dei danni di guerra" del primo conflitto mondiale.

Da allora altre iniziative parlamentari furono promosse, unitamente alle immancabili polemiche che non trovarono di meglio che additare quale vittima sacrificale nientemeno che Paolo Orsi, il padre dell'archeologia calabrese. Si ebbe persino un'istanza del Comune di Locri, nel 1966, consegnata nelle mani dell'allora presidente della Repubblica, Saragat. Fino ad arrivare ai giorni nostri con la battaglia ingaggiata, per ultimo, da Aloi che in una delle sue interrogazioni presentata, sul finire degli anni '90 del secolo scorso, al ministro dei Beni culturali in carica, e rivendicando la statua al suo luogo naturale, ha in un certo senso "istituzionalizzato" la sua odissea. Così come era stata rievocata, nel 1966, da un testimone presente sul luogo del rinvenimento.

Secondo questa deposizione giurata la Persefone fu «ritrovata nel 1905 nel territorio di Locri», in località di proprietà di Vincenzo Scannapieco, e nel 1911 «trasportata clandestinamente su un carro fino a Marina di Gioiosa e di qui, per nave, a Taranto, dove venne tenuta nascosta per un anno». Infine, dopo una breve sosta ad Eboli e Salerno, «esportata illegalmente in Germania, dove il kaiser Guglielmo II l'acquistò all'asta per un milione di marchi, nel 1915». Divenuta un asset del patrimonio artistico tedesco, oggi campeggia al Pergamon Museum di Berlino in tutta la sua magnificenza.

Una vera e propria anabasi, non c'è che dire, quella della dea locrese dall'espressione enigmatica. Che Corrado Alvaro doveva di certo ben conoscere per poterla riportare quasi fedelmente in due dei suoi romanzi più famosi. La statua, egli scrive infatti in Mastrangelina, «era sdraiata e i tre passeggeri, sul carretto, erano svegli, in quel chiarore troppo crudo.». Ne L'età breve invece narra di alcuni operai che «parlavano della statua, e si ostinavano a descrivere quello che ella portava nella mano non mutilata, una focaccia, secondo alcuni, e secondo altri la sua mammella». E se le cose andarono davvero così, c'è da chiedersi che fine abbiano fatto quelle mani.

Articolo di Francesco Pitaro pubblicato sulla Gazzetta del Sud del 19 aprile 2012

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